lunedì 24 novembre 2014

Capitolo 15 - Un Dolore Sopito

Il traffico cittadino scorreva lento e denso come una lunga colata di melassa appiccicosa che intrappolava le auto starnazzanti. Il rumore dei clacson e delle imprecazioni erano così assordanti che rendevano difficile ad Annabeth mantenere la concentrazione e non spazientirsi.
Cercava di ragionare sul l'incontro con Iris, ma non riusciva a comprendere che cosa le avesse davvero detto. Era stata un conversazione assurda e per molti versi insensata: le era parsa più una serie di frasi incollate una dietro l'altra che si sforzavano di indirizzarla verso un quadro equivoco.
Prese un profondo respiro e chiuse per un attimo gli occhi.
Non era portata per quelle cose, intrighi, macchinazioni, complotti. C'era un motivo se fino a quel momento aveva scelto una vita isolata, ma se voleva cominciare a muoversi su quel terreno doveva affinare le sue capacità deduttive e le sue conoscenze generali.
Quella stessa cittadina così affollata di Infanti, quell'ostilità, quelle parole non dette riflesse negli occhi degli abitanti, appena affacciate sulle labbra di Iris, lì, all'angolo della bocca, pronte a fuggire e al contempo rigidamente frenate. Che cosa le era sfuggito? O meglio: cosa aveva guardato e non aveva saputo vedere?

A Beatrix di certo non sarebbe sfuggito, ma lei non era voluta andare e non era solo per la macchina: le stava nascondendo qualcosa e non solo congetture non verificate. La seguivano ancora? E chi la seguiva? O forse c'era dell'altro?
Si massaggiò la fronte con i polpastrelli delle dita; continuare a rimuginarci su non l'avrebbe portato da nessuna parte, non aveva abbastanza elementi per poter trarre delle risposte, eppure si ostinava a tormentare il proprio cervello. Trecento anni e ancora non capiva la sua stessa gente.
Guardò fuori dal finestrino il grigio paesaggio cittadino che si macchiava dei colori del tramonto: anche quelli parevano spegnerai una volta posati sulle fredde facciate dei palazzi.
Loro erano ignari di tutto: la mattina si alzano e si gettano in una vuota routine consapevoli che quello che fanno non ha alcun peso, sapendo che la loro esistenza brucierà come carta al fuoco senza che la gravità di ciò che li circonda possa sfiorarli.
Si chiese come fosse essere Sapiens, nascere, crescere e vedere il proprio corpo sfiorire sotto il peso dell'età, rincorrere il tempo che sfugge fra le dita, sempre impegnati in una lotta contro l'incessante incedere dei giorni. Com'era cercare di racimolare ogni istante per conseguire i propri obbiettivi, dover scegliere cosa fare e cosa lasciarsi alle spalle? Com'era dire "per sempre" sapendo che quelle parole sarebbero state cancellate a breve dal l'abbraccio freddo della nuda terra? Com'era muoversi nel mondo ignari della grandezza delle cose, incapaci di comprendere la metà di ciò che gli occhi colgono eppure così fiduciosi da mettere al mondo altri brancolanti umani, formiche laboriose nel costruire una realtà fatta di carta e speranze vane?
Sospirò passandosi le dita tra i capelli.
Cosa poteva saperne lei? Aveva buttato trecento anni della sua vita vagando per un mondo che non le apparteneva. Certo aveva dedicato lunghi giorni alla scienza e quello che aveva ottenuto era fama, conoscenza, anche denaro, che tuttavia non l'avevano salvata dai suoi demoni e dai suoi rimorsi, non l'avevano strappata agli incubi che di tanto in tanto continuavano a svegliarla nel cuore della notte.
Un ciclista sfrecciò accanto a lei superando la fila di auto, una macchia di colori sgargianti che saettava sopra l'asfalto per sparire nel traffico pochi metri più avanti.
Fosse stato per lei si sarebbe alzata abbandonando la macchina dov'era e lasciando che chi di dovere la facesse rimuovere forzatamente, ma aveva deciso che avrebbe potuto regalarla a Vince, visto che sembrava piacergli tanto, e sfruttare magari la sua gentilezza per farsi accompagnare in giro quando necessario.
Sorrise malinconica.
Vince. Avrebbe dovuto parlargli di tutta quella faccenda, ma per farlo prima doveva addestrarlo, sia alla resistenza mentale, sia al combattimento. Ci sarebbe voluto del tempo e lei sapeva bene che le cose potevano peggiorare molto velocemente. In più in quel momento non sapeva neanche bene cosa avrebbe dovuto dirgli: lui non aveva idea di chi fosse lady Astrid e lei stessa non aveva ben chiaro perché Beatrix la stesse cercando. E riguardo all'incontro con Iris poi, se si sorvolava sulla piccola parentesi del luogo dove poter trovare Astrid, non aveva la benché minima idea di che cosa l'Infante le avesse voluto dire.
Finalmente si aprì uno spiraglio e Annabeth poté imboccare una via laterale dove il traffico scorreva a passo più sostenuto. I vetri del grande palazzo di fronte a lei riflettevano la calda luce del sole morente costringendola a ripararsi gli occhi con la mano.
Uno strano brivido le scorse d'un tratto lungo la schiena, accompagnato dal l'improvvisa sensazione di arsura alla gola. Allungò le dita per prendere la bottiglia dell'acqua sul seggiolino del passeggero; aveva un pessimo presentimento.

Vincent riempì nervosamente la tazza di acqua bollente; le foglie di tè nel filtro cominciarono ad allargarsi tingendo il liquido trasparente di caldi colori ambrati.
- Mi scuso ancora.- disse passando la delicata tazzina di porcellana al suo interlocutore - Ma la birra è finita proprio ieri e An...la mia Maestra non tiene superalcolici in casa. Forse del vino, ma non so dove sia.-
Arthur prese il bordo del piattino e il manico della tazza poggiandola sul piano accanto a sé.
- Posso capire, d'altro canto non mi aspetto certo che la piccola Annabeth sia attrezzata a ricevere ospiti, già mi sorprende che abbia deciso di trasformare te.- i freddi occhi dell'uomo corsero sul corpo di Vincent - Mi domando cosa tu abbia di così speciale.-
Il ragazzo deglutì e non rispose.
Non gli servivano poteri telepatici per percepire la volontariamente mal celata ostilità del Vampiro, né per indovinare il suo infastidito disprezzo. Non ne capiva la ragione, d'altro canto era solo la seconda volta che lo vedeva e non gli era parso di aver detto o fatto qualcosa di sconveniente nei suoi confronti, ma forse era sufficiente per lui anche il solo fatto che fosse il Cucciolo della sua ex-moglie.
Si lanciò un'occhiata alle spalle: Sequana era sempre lì, vicino all'ingresso della cucina che non lo perdeva d'occhio un momento, le orecchie all'indietro e la coda gonfia. Il resto dei felini abitanti dell'appartamento era scomparso, solo l'inseparabile trio pareva apparire ogni tanto accanto al divano, un membro alla volta come una sorta di ronda che teneva d'occhio la situazione.
Vincent si sentiva a disagio. Non capiva perché i gatti si comportassero in quella maniera; aveva pensato che fosse perché c'era un Vampiro che non conoscevano in casa, ma quando era venuta Beatrix non avevano fatto così.
Arthur bevve un sorso di tè e lanciò a suo volta una rapida occhiata alla piccola bengal, la quale per tutta risposta gli soffiò.
- Non sto simpatico ai gatti.- commentò lui - E la cosa è reciproca. Ma dimmi piuttosto, come ti trovi con la tua maestra, ti tratta bene?-
Aveva uno strano ghigno sul viso che al ragazzo faceva accapponare la la pelle. Di certo non poteva non rispondergli, ma fece attenzione a dosare bene le parole, pregando che quel tipo non leggesse nel pensiero come Beatrix.
- Me lo chiedono sempre.- rispose, accennando una specie di sorriso forzato - Lady Annabeth è molto gentile e disponibile, mi spiega molte cose e si assicura che io mi ambienti...-
L'uomo lo interruppe con una sorta di mezza risatina.
- Tipico di Annabeth, sempre così gentile.- posò la tazzina ancora mezza piena nel piattino e la scansò - Sai, lei non ne parla molto, ma è una persona importante, quindi dovrai imparare in fretta come funziona questo mondo e seguire le regole, perché gli occhi di tutti saranno su di te e immagino tu non voglia farle fare brutta figura.-
Vincent serrò la mascella.
- E questo cosa vorrebbe dire?- chiese, facendo uscire le parole con un tono un po' più duro di quello che avrebbe voluto.
- Ma nulla.- rispose l'altro, sfoderando un amabile quanto finto sorriso - È solo un consiglio, tu sei il primo Cucciolo dell'ultima erede della dinastia dei Roth, è un ruolo di grande responsabilità.- si protese un poco verso di lui e abbassò la voce come se volesse rivelargli un segreto - Vedi, per legge, se domani Annabeth morisse, tutti i suoi beni e il suo retaggio andrebbero a te, per questo dico di fare attenzione.-
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia.
- Lady Annabeth non morirà domani, quindi non vedo dove sia il problema.-
- Ma certo, ma certo, si fa per dire, per farti capire quale è ora il tuo ruolo nel mondo. Un discreto miglioramento, no?-
Vincent si sentì rabbrividire.
Quell'uomo non gli piaceva, ma non riusciva a capire se fosse solo un suo parere personale o quel sesto senso che tante volte nella vita gli aveva salvato la pelle quando si era trovato si situazioni ambigue.
Lanciò un'occhiata all'orologio sperando che Anna tornasse il prima possibile e con la coda dell'occhi individuò la testa di Morrigan sbucare da dietro il divano, le orecchie all'indietro e i verdi occhi che scintillavano. Era proprio vero, Arthur non stava simpatico ai gatti e lui era d'accordo con loro.
- Quante sono?-
Il ragazzo si voltò.
- Come prego?-
- Le bestie, quante sono?- chiese l'altro in tono quasi infastidito.
- Trentuno, contando i quattro cuccioli.- rispose lui.
- E non è fastidioso averle sempre tra i piedi?-
- In realtà no, tengono compagnia.-
La risposta corretta sarebbe stata un'altra, ma Vincent sapeva di non poterselo permettere. Lui era solo un Cucciolo e Anna era stata molto chiara riguardo ai pericoli che avrebbe corso se avesse osato mancare di rispetto a un Maturo, senza contare che quell'uomo era il Comandante della Guardia o almeno così aveva detto.
Arthur ridacchiò e cambiò posizione sullo sgabello in modo da potersi appoggiare meglio all'isola.
- Sai, ragazzino, molti Vampiri si circondano di bestie, poco importa la specie. Credono che dal momento che possono comunicare meglio con loro, che possono insegnargli delle cose, la convivenza con gli animali sarà più stimolante, ma la verità è che in realtà non cambia nulla. Certo, forse sono un po' più intelligenti, ma alla fin fine il loro cervello è pur sempre inferiore e limitato, non saranno mai in grado di formulare pensieri originali e complessi, così i Vampiri decidono di generare dei Cuccioli.- un ghigno gelido gli attraversò il volto - Perché è questo che siete, animali da compagnia per Noi è per i vostri stessi simili.-
Questa volta Vincent non riuscì a trattenersi.
Fece un passo verso il suo interlocutore e accennò a rispondergli a tono quando l'altro lo interruppe con un gesto, tendendo le orecchie: passi su per le scale.
Anna era finalmente tornata, il ragazzo sentì un'ondata di sollievo percorrergli le membra.
Sentì la chiave entrare nella toppa, così cercò di avviarsi all'entrata per accogliere la sua Maestra, ma Arthur lo afferrò per il braccio: le sue dita erano come una morsa d'acciaio e dovette stringere i denti per non farsi sfuggire un doloroso lamento.
L'uomo con tutta calma sorrise e si portò un dito alle labbra.
La serratura scattò e la porta si aprì e si chiuse.
- Vince, sono a casa.- disse la ragazza ad alta voce.
Il giovane avrebbe volentieri disobbedito alla silenziosa minaccia, ma l'uomo strinse ulteriormente la presa facendogli scricchiolare le ossa.
- Vince?-
La voce di Anna si fece più vicina e nel momento in cui varcò la porta Arthur lasciò andare il braccio del ragazzo, mentre la faccia della donna si faceva pallida come un lenzuolo.
- Cosa ci fai qui?- disse gelida, mentre ogni muscolo del suo corpo parve irrigidirsi di botto.
L'altro scese con eleganza dalla sgabello sventolando una busta gialla per documenti.
- Ma come, mi accogli così saltando a piè pari i convenevoli? Non è educato, lady Annabeth, vivere in mezzo alle bestie deve averti fatto dimenticare le buone maniere. In fondo sono venuto fin qui solo per farti un favore.-
Con una certa teatralità le passò la busta.
- I documenti per il tuo Cucciolo.- disse, quasi divertito - È un tipetto proprio servizievole, non un cattivo acquisto, anche se temo ti stuferai presto.-
La ragazza prese bruscamente i documenti.
- Non è un giocattolo.- rispose.
- Dici? Eppure mi pare tu ti ci stia divertendo abbastanza.-
- Esci.-
I due rimasero a fissarsi a lungo negli occhi, mentre in disparte Vincent osservava in silenzio la scena. Si sentiva una strana sensazione addosso, a metà tra la paura è l'ansia, che non gli permetteva di muoversi.
- Sei scortese.- commentò Arthur, mettendo su un finto broncio - Pensavo che aver condiviso il talamo nuziale avesse ancora un significato per te.-
- Lo ha.- rispose lei - Mi ricorda quanto poco valore davo un tempo a me stessa. E ora esci, questa è casa mia e non ti voglio qui.-
L'uomo fece un cenno con la mano, accennando un sorrisetto rassegnato e si avviò verso la porta, mentre Anna lo seguiva in silenzio per assicurarsi che se ne andasse davvero.
Era già sulla sogli quando d'un tratto si girò verso di lei e con uno scatto la spinse contro il muro. La ragazza rimase immobile, paralizzata, gli occhi spalancati in un'espressione di terrore.
- Anche se urlerai, non verrà nessuno a salvarti - le sussurrò all'orecchio - nessuno crederà alle parole di una povera pazza. Quindi respira, rilassati e prega che io torni il più tardi possibile, perché tornerò e tu sarai impotente, come è sempre stato.-
L'uomo si voltò e uscì dalla porta, sbattendola con forza alle sue spalle.
Lentamente Anna si rimise in piedi: le tremavano le ginocchia e le mani, ma cercava di nasconderlo al meglio.
Vincent si avvicinò piano, allungò la mano verso di lei sfiorandole il braccio con la punta delle dita.
- Anna, stai bene?-
Quello che vide dopo fu la rabbia.
Non come emozione, non come sentimento astratto, ma come qualcosa di fisico, concreto e materiale che gli attraversò il cervello come una lama rovente.
- Perché l'hai fatto entrare?!-
La voce della ragazza risuonò contro le pareti nell'appartamento, ma lui la senti esplodere nella sua testa.
- Perché gli hai fatto mettere piede in casa mia?! Tu non ne avevi il diritto!-
Vincent barcollò all'indietro sbattendo contro la parete: il dolore lo stava uccidendo, tutto intorno a lui sembrava distorcersi e roteare.
- Io non ti ho dato il permesso! Non ti ho autorizzato a fare di testa tua!-
Il giovane senti le ginocchia piegarsi, il fiato farsi corto e la bocca secca. Una morsa
- Anna...ti prego...-
- Questa è casa mia! Tu sei il mio cucciolo! E devi fare...-
- Ti prego!-
D'un tratto il dolore cessò.
L'aria tornò a riempire i suoi polmoni e ogni cosa nella stanza tornò al suo posto.
E lei era lì, di fronte a lui, i riccioli rossi che le cadevano morbidi sulle spalle, la mano sulla bocca e gli occhi spalancati. E le lacrime che le rigavano il volto.
- Anna...-
- Vai in camera tua.-
Si voltò e andò in cucina.
Vincent si alzò da terra e si trascinò nella sua stanza. Si appoggiò alla porta chiusa mentre Sequana, con le orecchie basse e la camminata mogia, strisciava nella gattaiola per stare con lui.
Dalla cucina senti gridare e il suono di qualcosa di coccio che si schianta contro la parete.
Il giovane scivolò per terra e si prese la testa tra le mani, mentre la micina si rannicchiava accanto a lui.

Il soffitto della stanza era rimasto perfettamente immutato nell'ultima ora, tranne alcuni minuti in cui una mosca era andata a posarsi proprio all'interno del suo campo visivo.
Loki e Thor stavano facendo la lotta ai piedi del letto, emettendo versetti a metà tra un ringhio è un miagolio, mentre la sua fedelissima bengal sonnecchiava pigramente fra le sue gambe, alzando solo di tanto in tanto la testa per controllare i cuccioli e rimproverarli se esageravano.
Vincent ruotò le spalle per sciogliere i muscoli irrigiditi; era rimasto così a lungo seduto contro la spalliera del letto con lo sguardo per aria che aveva smesso di sentire il collo e le gambe.
Non riusciva a dormire, dopo la lite con Anna non aveva osato neanche mettere il naso fuori dalla sua camera; aveva provato a navigare su internet, ma non riusciva a seguire i telefilm in streaming e facebook perde di fascino quando hai cinque amici, uno dei quali hai visto solo una volta quando avevi bevuto troppo. Leggere poi si era dimostrato del tutto impossibile, dopo essere rimasto sulla stessa frase per un buon quarto d'ora senza capire una parola, aveva lasciato cadere il libro in grembo e era precipitato nei suoi pensieri.
All'inizio era arrabbiato con Anna, lui non aveva fatto nulla di male e lei se l'era presa in quel modo, ma poi aveva capito e non era riuscito a non perdonarla. La visita di quell'uomo l'aveva sconvolta, tra di loro doveva essere successo qualcosa di terribile, e lei se l'era presa con lui perché non poteva prendersela con nessun altro.
Sospirò.
Doveva essersi preso davvero una bella cotta se dopo una cosa del genere l'aveva già perdonata, ma era più forte di lui: non riusciva a togliersi dalla testa l'espressione di disgusto e terrore che aveva percorso il suo viso quando aveva visto Arthur. Era rimasta lì, totalmente inerme, come una bambina spaventata, quando sapeva benissimo che se avesse voluto avrebbe potuto metterlo in ginocchi.
Vincent si prese la testa fra le mani.
Non aveva fatto nulla: non aveva cercato di avvertirla, né l'aveva protetta nel momento in cui quel bastardo l'aveva bloccata al muro. Se n'era rimasto lì, come un fesso, a fissare la scena paralizzato dal terrore, come un codardo. Un codardo.
Guardò la porta.
Aveva fame, ma Anna era in sala, poteva sentire la televisione vociare parole vuote fino da lì. Non voleva darle ulteriore fastidio, forse voleva restare sola, era ancora troppo presto per andarle a parlare.
Loki ruzzolò giù dal letto e si rintanò sotto lo stesso, mentre il fratellino si sporgeva ingenuo per vedere che fine avesse fatto. L'altro, più furbo, risalì dall'altra parte prendendolo alle spalle e questa volta facendoli cadere entrambi. Sequana miagolò per richiamarli all'ordine.
Vincent sorrise.
In serata erano passati a trovarlo diversi felini: non aveva capito bene cosa stesse succedendo, ma aveva l'impressione che stessero controllando se stesse bene, anche perché si limitavano a salire sul letto, strusciarsi accennando un gorgheggio di fusa e poi se ne andavano. Non poteva negare di sentirsi un po' disorientato.
- Eloise!-
L'urlo venne dall'altra stanza spezzando il silenzio dell'appartamento.
Non era la televisione, quella era la voce di Anna, Vincent lo sapeva bene. Tutti i felini che stavano giocando o sonnecchiando nella stanza alzarono la testa di scatto, le orecchie tese, poi si alzarono e uscirono dalla gattaiola. Solo Sequana si attardò il tempo di voltarsi indietro e guardare il ragazzo prima di scivolare oltre la porta.
Il giovane si alzò dal letto non senza difficoltà, visto che entrambe le gambe gli si erano completamente addormentate. Zoppicando un poco uscì dalla camera alla volta della cucina.
Nel buio della stanza l'acqua scorreva dal rubinetto, mentre Anna, china sul lavandino, si sciacquava il volto. In lontananza la televisione vociava parole indistinte, proiettando luci colorate sul muro di fronte.
La ragazza non parve accorgersi di Vincent, nemmeno quando prese un bicchiere dalla griglia accanto al lavello per riempirlo, con le mani che le tremavano al punto da rendere difficile persino un'azione così semplice. Solo quando chiuse l'acqua e si voltò lo vide e sussultò.
- Stai bene?- le chiese lui facendo un passo avanti.
Lei si ritrasse.
Aveva gli occhi gonfi di pianto e il naso arrossato su un volto cereo incorniciato dai rossi capelli scompigliati. Il suo corpo era scosso da un tremore diffuso ed evidente, un paio di goccia d'acqua scapparono all'orlo del bicchiere e caddero a terra.
- Ti prego, vattene.- sussurrò.
La voce le uscì flebile, pastosa, tremolante. Le sue dita sottili cercavano disperatamente il bordo del lavello per potersi aggrappare.
Vincent strinse i pugni per trovare la forza di contraddirla.
- No, non credo, tu sia nello stato di stare da sola.- rispose con fermezza.
Lei annuì lentamente, come nel tentativo di raccogliere le energie necessarie per quello sforzo.
- Va bene, allora me ne vado io.- mormorò.
Scivolò lungo l'isola è passò accanto al ragazzo. Lui ebbe solo un paio di secondi per pensare, così agì d'impulso e l'afferrò per il polso, nel modo più delicato possibile.
- Non posso lasciarti andare.- si scusò - Non stai bene, non puoi stare sola.-
Negli occhi della ragazza lesse una supplica disperata.
- Non voglio...-
Ma lui non la lasciò finire. Con gentilezza la tirò a sé e l'abbracciò piano, sfiorandole appena i capelli in una carezza rassicurante.
- Non devi dire nulla, va bene così, solo non posso proprio lasciarti sola.-
E Anna scoppiò a piangere, un pianto violento, disperato e antico, un pianto senza difese né vergogna, il pianto di dolore di una bambina di trecento anni. Violenti singhiozzi scuotevano il suo corpo, lì in mezzo alla cucina di un vecchio appartamento, mentre la città dormiva ignara immersa nel suo urbano silenzio.

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